Cari fratelli Laziali, possiamo tranquillamente ammettere che una mazzata così non ce l’aspettavamo proprio. È veramente triste quando non si riesce ad imparare dagli errori del passato. Con questa frase intendiamo riassumere il nostro ed il vostro stato d’animo dopo la batosta rimediata contro l’Atalanta delle meraviglie. Amiamo lo sport e la S.S Lazio deve continuare ad essere un esempio di lealtà sportiva. Perciò rendiamo onore al nostro avversario che torneremo ad affrontare in gennaio. Ora come ora, difficile pronosticare un risultato diverso da un’altra sconfitta. Ma voltiamo pagina. Per il prossimo appuntamento, la terza di campionato, sono tantissimi gli incontri, le belle partite giocate contro l’Inter. Senza andare troppo indietro, ci basti ripensare a quella dello scorso inverno, quando Milinkovic accarezzò il pallone con la suola prima di sferrare il sinistro del 2 a 1 e ci sembrò di toccare il cielo con un dito. In molti (e noi eravamo tra quelli) cullarono sogni di gloria. In verità, oggi vi porteremo molto, molto più indietro nel tempo, in uno dei giorni più dolci per la nostra Lazio, un giorno tanto magico quanto illusorio di una Lazio piccola piccola, capace però di riempiere lo stadio Olimpico in ogni ordine di posto. Torniamo indietro al 18 settembre 1983, siamo alla 2° giornata del Campionato Italiano di Serie A 1983-84. Chi siamo? Da dove veniamo? Veniamo dalla Serie B, siamo reduci dalla seduta spiritica contro il Catania e dal viaggio scolastico di Cava dei Tirreni per andare a pareggiare la partita con la Cavese. Siamo quelli che hanno subito lo scudetto della Roma targata Falcao senza poter opporre resistenza. A giugno, nella settimana antecedente quel Lazio Catania, quando tutto sembrava (per l’ennesima e beffarda volta) perduto, la telefonata di Giorgione da New York: “Cara Lazio non ti disperare più, perché ti vengo a salvare”. E due settimane più tardi Giorgio tornò davvero, e di colpo, magicamente, con la sola forza dell’amore che abbatte chiunque osi frapporvisi, per noi suonò la tromba della riscossa. Esattamente come quando, all’alba degli anni ’70 a Roma “esisteva” una squadra soltanto, l’arrivo di un giocatore amabilmente spaccone come Long John seppe regalarci un’identità nuova, facendo rialzare definitivamente la testa a noi, piccoli Davide, di fronte alla forza smargiassa dei più numerosi Golia giallorossi. Tutti noi conosciamo bene i risultati della gestione-Chinaglia, ne siamo perfettamente consapevoli. Tuttavia, noi laziali sappiamo non solo essere riconoscenti, ma sappiamo restituire l’amore quando lo riconosciamo, incondizionato, semplice e puro, come quello che Long John provava per la maglia con l’aquila sul petto. Sì, è vero, stavolta ci siamo dilungati, ma quando si parla di Giorgio la nostalgia prende sempre il sopravvento. Soprattutto quando stiamo per raccontarvi quella che, molto probabilmente, fu la sua domenica più bella da presidente, il Lazio Inter del 18 settembre 1983. Tanto per cambiare eravamo reduci da una batosta inattesa: 4 a 2 contro il Verona, ma faremmo meglio a dire che non ci fu partita, perché il Verona ci fece segnare i due goal solo negli ultimi minuti, dopo averci asfaltato senza se e senza ma. Quando entrammo allo stadio le curve erano stracolme. Le due tribune andarono via via riempiendosi e quando si accomodò al suo posto l’ultimo dei 65.000 spettatori le due squadre stavano uscendo dal tunnel tra la Monte Mario e la Sud. Noi con Cacciatori, Miele, Vinazzani, Manfredonia, Batista, Spinozzi, Cupini, Marini, Giordano, Laudrup e Piraccini. L’Inter schierava Zenga, Bergomi, Baresi, Bagni, Collovati, Bini, Coeck, Sabato, Altobelli, Beccalossi, e Serena. Partiamo di slancio, i primi minuti scorrono piacevoli e Giordano si esibisce in un tiro al volo che non impensierisce più di tanto Zenga. Arriviamo al 21’. Fallo al limite dell’area per un atterramento di Giordano da parte di Ferri. C’è un sole meraviglioso, è l’ultimo week end dell’estate ‘83 e i laziali sfoggiano una maglia bianca ed elegante, sembrano il Real Madrid. Quando Giordano prende la rincorsa ha di fronte a sé la barriera interista ma anche la muraglia umana delle migliaia di supporters assiepati in una Nord davvero straripante di Lazialità. Il pallone è come calamitato dalla folla e assume una traiettoria a rientrare che lascia tutti di stucco. 1 a 0 per noi! Da quel momento e fino al 45’, si vedrà in campo solo l’Inter. Cincischiamo a centrocampo, dove Batista si distingue per un passo simile a quello di un pensionato che porta a spasso il cane. Fortunatamente la Lazio si ricorda di essere una neopromossa mentre l’Inter è infarcita di campioni del mondo (Bergomi e Altobelli) e svariati giocatori di fama internazionale. Tra questi il bell’Hansi Muller, al quale il pragmatico Radice ha preferito il paffuto Beccalossi. L’Evaristo di Appiano Gentile assicura maggiore “presenza” rispetto all’impalpabilità dell’abbronzato tedesco, ed infatti Manfredonia, l’esordiente Miele e l’esperto Spinozzi, hanno il loro bel daffare per controllarlo. Ed anche nel secondo tempo l’inerzia è tutta dalla parte dei nerazzurri. Finché non si arriva al 60’. Azione di alleggerimento operata da Laudrup sulla sinistra, ma è marcatissimo, finché non trova una sponda su Piraccini. Questi è un giocatore che non brilla certo in velocità, tuttavia i difensori interisti riescono ad essere più lenti di lui. Addirittura, Piraccini riesce a portarsi il pallone sul destro, l’unico “piede” che ha. Quel cross, apparentemente insignificante, diventa il momento della vita per un eroe che purtroppo ci ha salutato qualche anno fa: Angelo Cupini ha seguito l’avanzata dei compagni sulla fascia opposta del campo. La palla è altissima per Giordano ma anche se fosse stata per lui, era scritto nelle stelle che avrebbe incontrato il collo del piede di Cupini. Siamo nei paraggi dell’area piccola, la palla si trasforma in un bolide che gonfia la rete (nella foto il momento del tiro). Uno dei goal più belli che si siano mai visti all’Olimpico! Il pubblico impazzisce, sente il profumo di una vittoria che non assapora dalla fine del decennio precedente. Giorgione si alza in piedi e sorride come un bambino, senza il pudore di mostrarsi “nudo” in un momento a metà tra pubblico e privato, ben lontano dalle esultanze asettiche (o programmate) dei dirigenti dei giorni nostri. L’Inter è imbufalita, Bagni è incredulo: nonostante un predominio costante è sotto di due reti a 30’ dalla fine. Si ributta all’inseguimento, mentre un vento piacevole e fresco comincia a soffiare dalla retrostante collina di Monte Mario. Un altro segno, qualora ce ne fosse stato bisogno, dalla piacevolezza di quel pomeriggio biancoazzurro. Siamo all’89’. Gli “ole’” di scherno lanciati verso i nerazzurri esaltano la simpatia della spocchia trasteverina di Brunetto Giordano, che effettua una veronica irriverente sul suo marcatore diretto, cucchiaio a scavalcare l’avversario e sfera per Michelino Laudrup che – pallone incollato ai piedi – s’invola lanciando sé stesso lungo la prateria interista, finché non arriva a tu per tu con Zenga. Quando scaglia il tiro ha percorso oltre 60 metri trascinandosi l’ansimante Ferri alle calcagna. Palla tra le gambe di Zenga e 3 a 0 finale, con lo stadio che canta “vinceremo il tricolor” mentre un gasatissimo Giampiero Galeazzi “cattura” lo sconfitto Gigi Radice (che sta svicolando verso gli spogliatoi) e quasi non si rende conto dell’impertinenza delle domande che gli rivolge a caldo! Alla fine, le telecamere e le riprese zoomate saranno tutte per Giorgio, sorridente e disteso come mai prima d’ora, la cravatta un po’ allentata sotto l’elegante blazer blu. Vorremmo ricordare Giorgio come lo vedemmo quel giorno, felice come neanche nel momento dello scudetto, sorridente e radioso, un uomo ancora molto giovane, un probabile presidente rampante. Non lo avremmo mai più visto così. Dopo una stagione tribolata ci salvammo all’ultima giornata per la miglior differenza reti sul Genoa. L’anno successivo arrivammo ultimi e tornammo in B. Quel che sarebbe accaduto successivamente, in quella rapida e viscida discesa verso l’inferno, non abbiamo animo per ricordarlo. Resta il mistero o - se preferite - l’alchimia, di come uno dei presidenti più perdenti della storia della Lazio sia considerato il simbolo della Lazio stessa, della sua storia romanzesca, romantica e spesso squattrinata, caratterizzata da discese ardite e da (faticose) risalite. Vi salutiamo con questa citazione battistiana, con la quale vorremmo abbracciare tutta la curva e tutti gli innamorati di Lazio che per l’ennesima volta saranno costretti a vedersi la partita dal divano. Dimentichiamo la Dea. E sosteniamo la Lazio. Dopo tutto – domenica - è un altro giorno. Forza Lazio! Ugo Pericoli