Cari fratelli Laziali,

nonostante lo stop casalingo con il Torino dell’Ivan - il Terribile - Jurić, non abbiamo perso posizioni nella corsa Champions. Il risultato della partita del lunedì sera ha anche smorzato la vena polemica nei confronti del signor Davide Ghersini, per l’insufficiente qualità tecnica mostrata durante Lazio Torino. Come invocato da Maurizio Sarri, l’arbitro genovese è stato “fermato” dal suo superiore diretto. Segno evidente che le nostre rimostranze non erano campate in aria.

Adesso tuffiamoci nell’amarcord che anticipa la prossima partita. Vi riportiamo al 15 febbraio 1976, alla diciassettesima giornata del campionato di Serie A 1975-76

Stiamo attraversando uno degli anni più difficili della nostra storia. Tutta la squadra ha palesato un rapido calo di tensione già qualche mese dopo aver conquistato lo Scudetto; all’inizio la cosa sembrava quasi fisiologica ma poi, con il protrarsi della crisi di risultati – stampa e tifoseria hanno iniziato a contestare pesantemente Società e Giocatori.

Arriviamo a Milano il sabato mattina. Solo tre squadre viaggiano alle nostre spalle e contro l’Inter di Beppe Chiappella dovremo fare di tutto per prenderci almeno un punticino. Sono cinque anni che l’Inter resta a secco. Un tempo infinito per una tifoseria abituata ai fasti morattiani, ai quali Ivanoe Fraizzoli ha finora risposto solo con lo scudetto del 1971. Nonostante le assenze forzate di Mazzola e Boninsegna, la sua Inter resta una raccolta di Figurine Panini cariche di fascino: Vieri, Giubertoni, Fedele, Oriali, Bini, Facchetti, Pavone, Bertini, Cesati, Marini e Libera.

Con Vincenzo D’Amico fermo ai box, Tommaso Maestrelli può ancora contare su sei undicesimi della squadra scudettata: Pulici, Ammoniaci, Martini, Wilson, Ghedin, Brignani, Garlaschelli, Re Cecconi, Chinaglia, Lopez e Badiani. In panchina troverà i placidi Moriggi e Ferrari e baffo-di-ferro Polentes.

L'Inter inizia a premere fin dal principio e noi restiamo indietro a difendere. Dopo solo un quarto d'ora perdiamo Re Cecconi. Luciano ha preso un colpo al ginocchio destro. Cinque minuti più tardi Ghedin, nel tentativo di ostacolare Libera, tocca la palla in area ma il signor Barbaresco ci grazia. Ci difendiamo e basta, come fanno le squadre che vanno a San Siro e sono impegnate nella lotta per non retrocedere: Felice Pulici è il giocatore che sta lavorando di più tra i ventidue in campo. Il giovane mediano Gabriele Oriali è quello che riesce a sganciarsi con maggiore libertà, marcato con difficoltà da Brignani e da Wilson.

Davanti siamo lenti e prevedibili, Long John è l’ombra di sé stesso. Quando prende palla si guarda a destra e a sinistra, alla ricerca di D’Amico e di Cecco, che ovviamente non ci sono. Come non c’è più Mario Frustalupi. Giorgione vorrebbe attraversare le acque nemiche ma si rende conto che sta viaggiando su una nave fantasma. Il nostro gioco è inconsistente. Verso la fine del primo tempo, Giacinto Facchetti si sgancia dalla sua linea di difesa e si lancia in un cost to cost che impegna severamente Pulici. Felice riesce a sventare in angolo con un balzo dei suoi.

I Nerazzurri rientrano in campo carichi, i nostri appaiono invece dimessi, guardano verso il basso, come se si sentissero oppressi da un peso invisibile. Cinque minuti e l’Inter si porta in vantaggio: Ammoniaci compie un fallo su Cesati in area, Barbaresco applica la regola del vantaggio tra le urla del pubblico interista che pretende il rigore. Nasce una mischia, anche Libera spinto da Ghedin finisce a terra, la sfera giunge tra i piedi di Oriali che dal fondo calcia verso la porta un tiro velenoso: Felice, che si era fermato – convinto che Barbaresco avrebbe decretato il calcio di rigore - deve arrendersi: 1 a 0 per l’Inter.

Proviamo a scuoterci. Con Chinaglia in stato di trance, tocca a Lopez e a Garlaschelli provare a segnare. Ma anche loro sono in sudditanza psicologica, non sono abituati a lottare per la salvezza, hanno un’ansia da prestazione che li rende precipitosi e imprecisi. L'Inter si salva per due volte da un pareggio che a quel punto non avremmo demeritato. Tommaso Maestrelli (ritratto nella foto in uno dei suoi ultimi allenamenti a Tor di Quinto) guarda l’orologio nervosamente, mancano pochi minuti, si agita sulla panchina, ma anche lui appare rassegnato all’ennesima sconfitta.

Siamo andati in confusione e quando Chinaglia si è posizionato dietro la linea d’attacco, la Lazio ha rinnegato sé stessa. Con Totò Lopez estraneo alla manovra, Brignani impalpabile e Badiani evanescente, Capitan Wilson è uscito esausto, a capo chino, insieme a Renzo Garlaschelli e a Gigi Martini, fratelli diversi di una Lazio che già non c’era più.

È trascorso quasi mezzo secolo da quel mitico Inter Lazio. Era un tempo in cui un “normale” imprenditore di tessuti, in una Milano non ancora da bere, poteva diventare il Presidente di uno dei club più famosi del mondo. Erano i tempi di Ivanoe Fraizzoli e di Umberto Lenzini, di un Calcio a misura d’uomo in cui i giocatori avevano “facce da calciatori” e cognomi tutti italiani.

Ciò nonostante, non riusciamo a smettere di amare questo gioco che ci riporta alla fanciullezza, sebbene la presenza massiva di tatuaggi, di capigliature improbabili, di maglie discutibili e di orari impossibili, concorrano nel farci rimpiangere quel Calcio che fu. Eppure, anche stavolta attenderemo l’ora di pranzo con trepidazione: siamo secondi e vogliamo restarci. Forza Lazio!

Ugo Pericoli