Cari fratelli Laziali,

prima di procedere con il nostro consueto amarcord, lasciateci rivolgere un caloroso ringraziamento a quella parte dello Stadio Olimpico, la Curva Maestrelli, che nei momenti immediatamente precedenti la sfida di Coppa Italia tra Lazio e Genoa, ha voluto richiamare l’attenzione sulla richiesta fatta pervenire dall’avvocato Gian Luca Mignogna alla Federazione Calcio, in merito all’eventuale assegnazione ex aequo dello Scudetto del Campionato 1915. “Grande Guerra, Grande Lazio” recitava uno degli striscioni.

Vale la pena sottolineare come il Popolo Laziale non pretenda nulla per partito preso, ad eccezione di una risposta - positiva o negativa che sia – purché motivata, sui perché e sui per come si sia giunti ad un giudizio finale. È trascorso troppo tempo, vissuto in un silenzio assordante da parte di chi dovrebbe prendere la decisione. E questo sì che ci sembra un’ingiustizia.            

Oggi ce ne torniamo ad un Verona-Lazio vecchio di 34 anni. È domenica 2 aprile 1989 quando il buon Giuseppe Materazzi sta riuscendo nell’impresa di far approdare la neopromossa Lazio in acque sicure, procedendo a vista, partita dopo partita, nel corso di un campionato finalmente di Serie A.

C’è da affrontare un Verona non al meglio. I veneti, che solo cinque anni prima avevano clamorosamente vinto uno strameritato Scudetto, sono ormai alla fine di un ciclo. La proprietà ha dovuto cedere i pezzi migliori, soprattutto per fare fronte alle spese in cui primeggia, come ordine di importanza, la voce legata ai premi-partita. La formazione scaligera è ancora di ottimo livello ma ad Osvaldo Bagnoli manca Claudio Caniggia, forse l’elemento più talentuoso. Questo il Verona di quel giorno: Cervone, Berthold, Volpecina, Iachini, Pioli, Soldà, Bruni, Troglio, Galderisi, Bortolazzi e Pacione.

Materazzi risponde con Martina, Marino, Beruatto, Pin, Gregucci, Piscedda, Di Canio, Icardi, Muro, Greco e Sosa.

Già dai primi minuti, sarà facile comprendere che tipo di partita è venuta a fare la Lazio. Materazzi ha chiuso la sua formazione a riccio: tutti indietro a difendere! A cominciare da Pin e Icardi, fino al raffinato e saltellante Ciro Muro, uno che dovrebbe stazionare dietro le punte, sentendosi libero di creare. Invece no, anche lui davanti ai difensori, come d’altronde gli stessi Greco e Sosa, arroccati due metri dietro la linea di centrocampo, pronti ad intervenire ad ogni accenno di affondo veronese. L’imperativo è semplice: distruggere il gioco avversario senza preoccuparsi di costruirne uno. Perfino Paolo Di Canio gioca arretrato, una sorta di fluidificante alto. Sulla sua fascia c’è Volpecina: sarà un bel duello.

Il Verona dopo cinque minuti è già padrone del gioco, tuttavia le azioni, seppur continue ed arrembanti, risultano sterili e ripetitive. L’ex Juventino Marco Pacione, molto temuto alla vigilia, è stato preso in consegna da Angelo Gregucci, che sembra decisamente in giornata. Ben supportato da Beruatto e Marino (quest’ultimo, ritratto nella foto in un contrasto a Galderisi) Gregucci sta sovrastando il suo avversario diretto: di testa, infatti, il centravanti giallo-blu non ne prende una, sistematicamente anticipato dallo stopper biancoceleste. All’ennesima azione d’attacco, al 40’, Pacione riesce finalmente ad anticiparlo ma la sua deviazione, debole e centrale, viene agevolmente bloccata da Martina. Verso lo scadere, l’azione si ripete ed anche in quest’occasione, la testata di Pacione sembra più un passaggio al nostro portiere che una minaccia credibile.

Si rientra negli spogliatoi con un occhio alla classifica: la Lazio sarebbe salva.

Il rientro in campo è da brividi: il numero 10 del Verona, Mario Bortolazzi, è cresciuto nel Milan di Gullit e Van Basten. Ad avvio di ripresa gli riesce un tiro davvero alla Marco van Basten, potentissimo e preciso, che colpisce nel pieno la traversa, facendola oscillare per oltre un secondo. Un tempo infinito per noi, coscienti come siamo che, in quel momento, prendere gol significherebbe perdere malamente la partita. Ed allora, tutti indietro, come prima, più di prima, la strategia che Materazzi ha adottato – salvo che in rare e indimenticabili occasioni – fin dalla prima partita di campionato.            

Dopo vari tentativi degli avanti veronesi e di altrettanti validissimi interventi di Silvano Martina, Materazzi tenta la carta Dezotti. Sia lui che Rizzolo si sono riscaldati per qualche minuto. Antonio Rizzolo non ha ripetuto il bel campionato precedente, è stato il giocatore che ha accusato – forse più di ogni altro - il cambio di allenatore. Era abituato alle attenzioni di Eugenio Fascetti, l’allenatore burbero-buono che lo aveva preso sotto la sua ala protettrice. Fascetti pretendeva tanto da tutti, ma sapeva aspettare i “ragazzini” come Rizzolo. Materazzi invece ha scelto di seguire altre logiche, molto più aziendali: spazio agli attaccanti arrivati con la prima campagna acquisti “estera”, dopo anni di autarchiche lacrime.

Largo alle suggestioni dal nome esotico, come Gustavo Abel Dezotti, un oriundo argentino simpatico e pasticcione, uno che ti potrebbe aiutare a tenere il morale alto, ma nulla di più. Dezotti è entrato al posto dell’esaurito Pin, manca una decina di minuti. Chissà, potremmo approfittare di un calo fisico del Verona. L’impatto di Dezotti, per quanto il giocatore sia volenteroso, risulterà del tutto ininfluente. Solo all’ultimo minuto, più che altro per far perdere un po’ di secondi, entrerà anche Rizzolo. Ricordate cosa accadde?

Antonio, appena entrato, conquista il primo pallone giocabile, salta l’incredulo Stefano Pioli e conclude fuori di un soffio il tiro che poteva valere la vittoria.

Tornammo a Roma contenti lo stesso, era un campionato improntato sui piccoli passi.

La Lazio di oggi è vicecampione d’Italia. Sta disputando, tutto sommato, un campionato completamente diverso, dove partite “facili” come quella di Verona, hanno un imperativo soltanto

Forza Lazio!

Ugo Pericoli