Cari fratelli Laziali,
diciamoci la verità: martedì sera, quando abbiamo realizzato che il tiro scagliato da De Ketelaere era al di qua del terreno di gioco e che la qualificazione era ancora dalla parte nostra, ci è sembrato di scorgere San Pietro sulla traversa. Proprio come accaduto a Fantozzi al termine di una faticosissima partita tra scapoli e ammogliati, nei minuti di recupero di Lazio Bruges siamo arrivati a coprirci lo sguardo per la paura di assistere in diretta al suicidio perfetto della nostra Lazio.
È stato come vivere in una bolla, una nuova partita vista alla televisione, giocata bene ma conclusa con troppi patemi, che ci hanno – e qui sta l’essenza della nostra lazialità – lasciato addosso quel filo di spavento che tende a non abbandonarci neanche ora, nonostante il grandissimo risultato (anche tecnico) conseguito giorni fa. Dopo quasi vent’anni siamo di nuovo tra le prime 16 d’Europa. Venti anni rappresentano un tempo lunghissimo, perfino per una società ultracentenaria come la nostra Lazio. Godiamoci questo risultato, siamo migliorati tantissimo nel pieno rispetto del budget e delle norme imposte dal Fairplay finanziario. Sappiamo che altri possono permettersi di snobbare queste regole, ritenendole poco più di un dettaglio, potendo (o scegliendo di) contare su facili aumenti di capitale sociale e cambi di proprietà d’oltreoceano.
E possiamo rallegrarci nel sapere che, l’altra sera, nel momento in cui noi tutti tiravamo quel sospiro di sollievo, altri cadevano dal divano. Magari non avremo mostrato di avere quella mentalità vincente (cosa sarà mai questa mentalità vincente un giorno ce lo spiegheranno) ma abbiamo dimostrato di essere una squadra molto forte.
Tra qualche ora sarà nuovamente Campionato, un nuovo Lazio Verona. Per il ricordo di oggi vi porteremo in un altro tempo, in un’altra Lazio, bel lontana da quella che oggi potrebbe ritrovarsi faccia a faccia con il Liverpool o il Bayern Monaco.
Era appena iniziato un anno “magico”, sotto il profilo prettamente calcistico: era il 3 gennaio 1982 e per la 16° giornata del Campionato di calcio di Serie B 1981/82 veniva a farci visita (nella foto all'interno dell'articolo gli striscioni dell'epoca rigorosamente affissi in curva) il temibile Verona di Osvaldo Bagnoli.
Noi eravamo reduci da un autunno deprimente. Nonostante il rimpatrio di Vincenzo D’Amico dal Torino, perdiamo in casa (sul neutro di Terni) per 1 a 2 contro la Spal. Da quel momento, tutta una serie di risultati altalenanti che si concludono con una sconfitta prima delle vacanze natalizie.
Tra una fetta panettone e un bicchiere di spumante, Ilario Castagner ha provato a rimescolare (ma non troppo) le carte. Manda in campo questo undici di partenza: Pulici, Spinozzi, Chiarenza, Mastropasqua, Pighin, De Nadai, Viola, Sanguin, D'Amico, Ferretti e Speggiorin. In panchina, oltre a Marigo, anche Pochesci, Vagheggi, Badiani e il vecchio cuore Renzo Garlaschelli (nella foto di apertura la rosa di quella Lazio).
Pulici, Garlaschelli e D’Amico: tre superstiti dello Scudetto del 1974 erano presenti quel giorno, gli ultimi testimoni della Lazio più bella della nostra vita, che sembra più vicina oggi, perché simile a quella di Inzaghi in quanto a forza e qualità di gioco, che non a quella di quel periodo così buio, di passaggio tra i decenni Settanta e Ottanta.
Quel Verona ha in sé i prodromi di una grande squadra, anche se ancora non lo sa. Forse a intravedere qualcosa, è solo il suo allenatore. Si chiama Osvaldo Bagnoli, è un figlio della Milano operaia. Lo chiamano “il mago della Bovisa”, in omaggio al quartiere industriale dove è nato 47 anni prima. Schiera la formazione tipo: Claudio “paperella” Garella, Cavasin, Oddi, Di Gennaro, Lelj, Tricella, Manueli, Guidolin, Gibellini, Odorizzi e Penzo.
Non è molto freddo quel gennaio romano e nel primo tempo troviamo comunque il modo di riscaldarci (soprattutto nell’animo) a fronte del modestissimo ed irritante spettacolo offerto dai nostri. Una bordata di fischi accompagna i nostri al termine della prima frazione. Ilario è un mite, nessuno riesce a immaginarlo duro o rude all’interno degli spogliatoi. Lì dentro però qualcosa sta succedendo. Dopo pochi minuti, chi come noi era presente allo stadio, avrebbe assistito ad una radicale metamorfosi. Nel corso del primo tempo, il Verona aveva danzato tra le belle statuine in maglia biancoceleste, dando l'impressione di poter colpire a piacimento ma rendendosi pericoloso soltanto con un'incursione di Odorizzi.
Quanto ai nostri, D'Amico aveva esagerato col pandoro ed era in stato confusione, Viola appariva appannato ed involuto, Speggiorin arrugginito, Sanguin non pervenuto, tanto da essere sostituito a inizio di ripresa dal senatore Roberto Badiani. L’umile Mastropasqua aveva provato a tener viva la manovra, ma tutto lasciava presagire l’ennesimo capitombolo casalingo. Quasi d'improvviso, e grazie soprattutto all'innesto di Claudio “Rocheteau” Vagheggi (il buon Vagheggi era il sosia di Dominique Rocheteau, il centravanti francese che avremmo visto qualche mese più tardi al mondiale di Spagna) al posto di Speggiorin, stava per iniziare un'altra partita. Subito Vagheggi si procurava la punizione del vantaggio: perfetta traiettoria di Ferretti, quattro maglie biancocelesti a saltare nella distrattissima difesa veneta, D'Amico era lesto a colpire di testa per il goal dell’1 a 0. Era il minuto 55 e il signor Tullio Lanese di Messina sollecitò i nostri a riprendere posizione in fretta. Dopo qualche minuto, era ancora Vagheggi a colpire la traversa ed infine, all’81°, a marcare il rassicurante raddoppio battendo Garella in diagonale, dopo un fortunoso rimpallo.
Sarebbe stato il primo goal di Vagheggi con la nostra maglia, dopo i tanti segnati da avversario. Solo un po’ di lavoro per Felice Pulici, chiamato all’intervento risolutivo su una punizione abilmente calciata da Penzo.
La partita finì senza ulteriori sussulti, ci ritrovammo terzi, in piena bagarre per una volata alla quale non avremmo mai potuto prender parte, per manifesta inconsistenza tecnica. Ci salvammo, anzi, venimmo salvati, da uno strepitoso Vincenzo D’Amico che ci salvò dalla disfatta (leggi: dalla serie C) in un pomeriggio di giugno umidiccio e distratto, quando – mentre tutto il Paese attendeva di vedere all’opera la Nazionale di Enzo Bearzot – incrociammo il nostro destino con quello del Varese e con quello di (sempre sia lodato!) Eugenio Fascetti. Vedete quante coincidenze? Quante volte questa maglia ci ha accompagnato nei piccoli e grandi fatti della nostra vita!
Cosa rimase di quella partita? Cosa accadde alla Lazio e al Verona? I destini delle due squadre si separarono definitivamente. La nostra Lazio, forse la compagine più iconica degli anni Settanta, passò il testimone al Verona, che si accingeva a diventare una delle squadre “cult” degli anni Ottanta. Nel giro di tre anni e mezzo, il Verona di Osvaldo Bagnoli avrebbe messo in riga tutti, dalla Juventus di Platini, alla Roma del divin Falcao, passando per il Napoli di Diego Armando Maradona.
Oggi è tutta un’altra Lazio e anche un altro Verona. Tuttavia, lo scorso anno proprio il Verona riuscì a fermarci all’Olimpico, in un trepidante recupero infrasettimanale dove solo un riflesso di Thomas Strakosha ci risparmiò una brutta sorpresa. Era il 5 febbraio di quest’anno vissuto stranamente, dai laziali e dagli altri abitanti della Terra. Quella sera, vedemmo Senad Lulic sfilarsi la fascia di capitano e infilarsi il giubbino della tuta. Non lo vediamo da quel giorno. Quanto ci manchi Senad!
Sarà dura tenere il passo delle squadre che ci precedono perché il calendario è fitto e difficile.
Cerchiamo di concentrarci e di affrontare una partita alla volta, a cominciare da quella di sabato sera.
Forza Lazio!
Ugo Pericoli