Cari
fratelli Laziali,
Buon Anno a tutti! Finalmente ritorna la nostra Lazio.
E con lei la
normalità di un calcio che vorremmo tornasse ad essere una “questione” più
semplice. Non sentiremo la mancanza dei Mondiali del Qatar. Nulla da eccepire
sulla qualità del gioco – la finale è stata una delle più emozionanti di sempre
– ma esistono cose che il denaro non può comprare. Tipo la passione vera.
Torniamo
alle cose di casa nostra, alla passione vera appunto, alla nostra Lazio che ci
è mancata tantissimo.
Come
amarcord della partita che verrà abbiamo scelto un incontro di 43 anni fa.
Torniamo indietro al 18 aprile 1981 quando, per la trentssima giornata del campionato
di Serie B, scendiamo nel Salento per incrociare i giallorossi del Lecce. Li
allena Gianni Di Marzio, uomo di calcio e del calcio del Sud. Non se la
passano benissimo ma noi sembriamo messi peggio.
Loro con De
Luca, Lorusso, Miceli, Gaiardi, Bonora, Re, Cannito, Improta, Biagetti, Mileti
e Magistrelli. Noi con Marigo, Spinozzi, Citterio, Perrone, Pighin, Simoni,
Marronaro, Viola, Chiodi, Mastropasqua e Greco. A disposizione di Ilario
Castagner ci sono Di Benedetto, Garlaschelli, Ghedin, Manzoni e Scarsella.
Arbitra un
monumento dell’arbitraggio anni Settanta, il signor Barbaresco di Cormons:
è una partita delicata, la prima dello sprint finale che deciderà le altre due squadre
che accompagneranno il Milan già promosso.
Partiamo
bene, al quinto minuto Stefano Chiodi spreca una buona occasione. Al quattordicesimo
Marronaro impegna De Luca in una parata difficile. In realtà, da parecchie domeniche
fatichiamo a trovare la via della rete, il Lecce non ci mette molto a capirlo. Pighin
si immola per deviare la botta di Mileti, poi Gaiardi spreca un’opportunità
solo due minuti più tardi. Al ventesimo Biagetti scheggia l'incrocio dei pali. Ancora
Gaiardi, due metri fuori dell'area di rigore, è contrastato da Spinozzi e
Perrone, più con le cattive che con le buone. Altra occasione per Mileti che
manca la facile conclusione calciando sull’esterno della rete. Finalmente
interrompiamo l’assedio con Greco: una punizione che impegna De Luca a cinque
minuti dall’intervallo. Il minuto seguente Marronaro manda di poco a lato. Andiamo
negli spogliatoi tenendo la radiolina incollata all’orecchio. Sugli altri campi
le altre pretendenti non hanno ancora segnato e dunque siamo ancora al secondo
posto. C’è chi recrimina “Eh, se ci fossero Giordano e D’Amico”; ma non
ci sono e nel secondo tempo, ci accorgiamo dopo sessanta secondi che nulla è cambiato
rispetto al primo: è il Lecce a fare la partita. E sebbene i Salentini faranno
solo due tiri in porta (con Biagetti e Magistrelli), noi non faremo nemmeno
quelli. Alla fine, dovremo ringraziare Dario Marigo per averci evitato
la sconfitta nel giorno di Sabato Santo. Un pareggio non del tutto meritato che
ci obbligherà a salutare definitivamente il secondo posto in classifica, triste
preludio di quel che accadrà nel giro di quarantacinque giorni.
Vi abbiamo faticosamente
raccontato un’altra piccola pagina di Lazio, il riassunto di quello scialbo incontro
di Sabato Santo 1981. Faticosamente perché, mentre iniziavamo a scrivere
quest’articolo, venivamo raggiunti dalla notizia della scomparsa di Sinisa
Mihajlovic. Proprio nel giorno del ricordo di Felice Pulici,
scomparso anch’egli un 16 dicembre, la Lazio era in campo per un’amichevole in
Turchia. Giocavano con il lutto al braccio una partita che in quel momento
aveva perso ogni significato. Esattamente come il nostro amarcord. Perché
tutti stavamo pensando soltanto a Sinisa.
E così, abbiamo
continuato a scrivere, provando ad immaginare cosa stesse facendo Sinisa
quel 18 aprile del 1981. Come tanti coetanei dodicenni, si sarà fatto una
partitella su un campetto della Vukovar di inizio anni Ottanta. Sinisa era
nato in quella cittadina sul confine serbo-croato, il 20 febbraio del 1969. Vukovar, Croazia, in quella che allora era la
Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Era il “Sinisa” di
un camionista serbo e di una casalinga croata: Sinisa significa infatti “'primo
figlio maschio”, da qui il nome di uno dei calciatori più iconici
dell’intera storia del nostro Sodalizio.
Probabilmente
le giovani generazioni non immaginano quanto fosse spettacolare il calcio jugoslavo
degli anni Settanta. Pensate che Pelé, per il suo “addio” alla
nazionale verdeoro, chiese che la sua ultima partita si disputasse proprio con
la Jugoslavia. Il match si tenne il 18 luglio 1971 al Maracanà di Rio
e terminò 2-2. Grandi campioni che innamoravano tutti gli jugoslavi: è in
quel contesto che Sinisa iniziò a tirare i primi calci nella squadra del Borovo,
un sobborgo a 8 km dal centro di Vukovar. Non ci siamo sbagliati nel pubblicare
la foto in testa all’articolo: il ragazzetto nel cerchio è proprio Sinisa
nella sua primissima squadra, il Borovo, militante nella Druga Liga,
la serie B del campionato jugoslavo di calcio. Esattamente dieci anni più tardi,
Sinisa, che nel frattempo era diventato campione nazionale, europeo e
intercontinentale con la Stella Rossa di Belgrado, sarebbe fuggito dalla
sua città. È il 1991: Borovo, che si trova proprio sul punto di confine,
diventa il teatro di un episodio sanguinoso, considerato una delle micce della
Guerra nei Balcani. Dopo la guerra Sinisa arriverà in Italia e,
soprattutto, arriverà da Noi. La sua morte ci ha lasciato attoniti.
E a Noi
piacerà sempre
pensarlo ancora nei pressi di un’area di rigore, mentre si accinge a scagliare
i suoi micidiali calci di punizione, perché “se tira Sinisa, è gol”.
Sapevate che Sinisa era stato oggetto di studio all’Università?Negli anni della Stella Rossa, il Dipartimento di Fisica dell’Università di Belgrado studiò i suoi tiri, arrivando a stimare una velocità di 165 km/h.
Adesso
possiamo ripartire. Forza Lazio!
Ugo Pericoli