“Non ha importanza dove
si è nati, quando come e dove si sono avuti i primi approcci con il calcio, per
diventare un appassionato, un tifoso. Il tifo è una malattia giovanile che dura
tutta la vita”
Pier
Paolo Pasolini
Cari fratelli Laziali,
oggi
vogliamo raccontarvi la storia di uno di noi. Tutti i tifosi della Lazio hanno
bellissime storie, aneddoti e coincidenze legate alla squadra o al campione
preferito. Quella di Alessandro Moscè però, è davvero una storia diversa.
Qual è il legame indissolubile tra Alessandro, che oggi è un
cinquantaquattrenne poeta, scrittore e saggista e il giocatore più
rappresentativo della storia della Lazio?
Ce
lo ha raccontato lui stesso, nel corso di un’intervista di pochi giorni fa.
D: Raccontaci di te: che
cosa fai e dove vivi?
R: "Sono nato ed ho sempre vissuto nelle Marche dove mi occupo di giornalismo e di letteratura. La lazialità mi è stata trasmessa da mio padre con i suoi racconti durante il fine settimana dei primi anni settanta. Lui era un geometra e lavorava per una società che aveva sede a Roma, nella zona di Vigna Clara. Si chiamava “Centro studi e controlli” o qualcosa del genere. Era la fine del 1974, avevo cinque anni: mia madre, mio fratello ed io lo aspettavamo a Fabriano il venerdì sera, quando finalmente, intorno alla mezzanotte, arrivava a casa dopo una settimana lunghissima. Non è mai mancato, neanche quando c’era la neve.
Ricordo bene i suoi resoconti: a
Roma tutti stavano impazzendo per una squadra di calcio non famosa, ma che
giocava benissimo. Il giocatore più bravo era un guerriero, un combattente, un
uomo stravagante che irrideva gli avversari della Roma puntando il dito contro
la curva dopo aver segnato: un gesto oltraggioso. Fu mio padre a raffigurare
così Giorgio Chinaglia: non lo avevo mai visto in televisione e potevo solo
provare ad immaginarlo. Ero un bambino fantasioso e mio padre descriveva questo
“gigante buono” come fosse un gladiatore della Roma antica e imperialista. Mi innamorai
del personaggio che faceva pensare ad un supereroe dei fumetti. Esisteva
davvero, non come l’Uomo Ragno, Goldrake e Mazinga Z."
D: Una settimana è lunga. Cosa ti diceva tuo
padre di Roma?
R: "Roma era soltanto una grande metropoli, un concetto astratto, una realtà irraggiungibile, troppo distante dalla mia che vivevo in una città di provincia. La lontananza del riferimento paterno, l’inafferrabilità della capitale, l’esaltazione di Chinaglia che sembrava uscito da un giornalino di supereroi, era già di per sé una sorta di epica.
La vittoria dello scudetto della Lazio di Tommaso Maestrelli, la fuga
di Giorgio Chinaglia negli Stati Uniti, la morte di Tommaso e di Luciano Re
Cecconi, il calcio scommesse, le brutte notizie mi giungevano nel distacco con un
succedersi tumultuoso di eventi. Per nulla attutita, la mia lazialità cresceva
giorno dopo giorno, finché arrivarono i miei quattordici anni"
D: Perché questo salto in avanti nel
tempo?
R: "Perché a quattordici anni, nel giugno del 1983, mi viene diagnosticata una malattia dal nome difficile da pronunciare, il sarcoma di Ewing. Un tumore osseo infantile, raro e terribile. Il mio caso viene preso a cuore da un luminare, il professor Mario Campanacci, un pioniere internazionale nel campo dell’oncologia muscoloscheletrica. Dopo il primo ricovero all’Umberto I, il vecchio ospedale nel centro di Ancona, vengo trasferito al Rizzoli di Bologna. Fino a qualche giorno prima ero concentrato, come qualsiasi altro tifoso della Lazio, sul possibile e sospiratissimo ritorno in Serie A. Improvvisamente mi trovo in ospedale, in condizioni drammatiche, quasi arreso.
È lì che inizio ad aggrapparmi disperatamente al mio sogno. Leggo sui giornali che Giorgio Chinaglia è in procinto di tornare a Roma: vuole far ritornare la Lazio ad essere una grande squadra. In quel momento sono perfettamente consapevole di poter morire. Mi rivolgo a mio padre e a mia madre per chiedere di esaudire due desideri strazianti. Il primo: che il giorno della mia morte la notizia non venga comunicata attraverso la pubblicazione dei manifesti a Fabriano (è uso comune, nelle città di provincia, affiggere locandine funebri per comunicare orario e luogo delle esequie). Il secondo: poter conoscere di persona Giorgio Chinaglia. Non ho molti ricordi in merito all’intervento chirurgico, mentre ho in mente il difficile percorso di recupero.
Una riabilitazione che avviene lentamente, in continuo, precario equilibrio tra miglioramenti palpabili e attimi di minore serenità. Le stampelle, una spaventosa magrezza, la fatica. Finché un giorno, dopo due anni, il professor Campanacci mi comunica che sono completamente guarito. Perfino lui, l’insigne cattedratico, irriducibile uomo di scienza, mi chiede a quale “santo” mi sono votato. Per darti un’idea, fino ai primi anni Novanta sono stato riconosciuto come il secondo caso di guarigione avvenuta in Italia da un sarcoma di Ewing al bacino. La mia cartella clinica è stata trafugata dal Rizzoli ed è diventata oggetto di studi accademici con tanto di citazioni nei testi specialistici. Quando le mie condizioni virano nella direzione sperata, mio padre contatta immediatamente la società sportiva Lazio. E’ la segretaria Gabriella Grassi ad organizzare tutto per filo e per segno.
La Lazio
si è salvata a Pisa all’ultima giornata e nei giorni immediatamente successivi
la società comunica che il ritiro estivo si svolgerà a Gubbio, a pochi
chilometri da casa mia. Sebbene spossato dai cicli di chemioterapia e con le
stampelle, incontro tutti i giocatori: da Giordano a Manfredonia, da Laudrup a
Batista, il brasiliano che si dimostra un guascone. Poi, finalmente, l’incontro
con Chinaglia, che la gente venera come un Giulio Cesare moderno con la corona
d’alloro trionfale. Giorgio mi guarda con gli occhi spalancati, commossi, e finalmente
ci abbracciamo. Mi dà il permesso di andare al campo ogni giorno, quando ne ho
voglia. No, non ho nessuna fotografia…
ero esausto, non mi sentivo a mio agio. Quelle fotografie le ho strappate
tutte"
D: Hai più incontrato Giorgio Chinaglia,
ci hai più parlato?
R: "Siamo rimasti in
contatto fino al 2006, puoi immaginare i motivi. Avevo il suo numero di
telefono, me l’aveva dato Giancarlo Oddi, un’altra persona che mi ha mostrato grande
gentilezza, come il capitano Giuseppe Wilson"
D: Sei ancora in contatto con qualcuno
dell’ambiente Lazio?
R: "Sento Luigi Martini,
Arcadio Spinozzi e Domenico Masuzzo, che vive dalle mie parti. Poi Stefano Re
Cecconi. Con Stefano siamo amici, è anche affettuoso verso mia madre. Stefano vive
nel ricordo del padre, forse ancor più di George jr Chinaglia, al quale ogni
tanto telefono. Vive a Boston e fa il musicista. Mi ha regalato due maglie del
padre che conservo come reliquie"
D: La tua storia si direbbe molto adatta
per farne un film.
R: "Ed infatti a qualcuno era venuta l’idea, ma il film non è mai stato fatto. La mia vicenda personale è impressa nel libro Il talento della malattia edito da Avagliano nel 2012 e considerato dal “Sole 24Ore” tra i più bei romanzi di quell’anno. Ha venduto moltissimo e mi ha fatto conoscere al grande pubblico. Ho ricevuto centinaia di email e di lettere da tutta Italia. Questo libro contiene la mia vita, da laziale e non solo: s’incontrano nascita, morte, il senso di finitudine, la perdita, il mito, la fede. La figura di Giorgio Chinaglia diventa predominante in alcune pagine, mentre lotto nei luoghi dove la vita è messa in stand-by: gli ospedali. Giorgio era già il mio compagno preferito da bambino, ma nel 1983 si era trasformato nel santo al quale appellarmi nella solitudine.
C’è un’altra cosa che devi sapere su
questo libro: non ci crederai, ma è uscito tre giorni prima della morte del mio
campione. Una coincidenza, non saprei. Purtroppo Giorgio non ha potuto
leggerlo. Sono uno scrittore, appunto. Ho letto, obtorto collo, anche molta
letteratura medica. So perfettamente che le malattie si combattono con la forza
e l’efficacia delle cure. Tuttavia ho una suggestione: sento che l’essermi aggrappato
disperatamente al mio sogno mi ha donato quella “motivazione antagonista” che mi
ha restituito la vita nei momenti più duri. Per me bambino Giorgio Chinaglia è
stato una figura inscalfibile"
D: Come restare
indifferenti ad un racconto come questo! Vogliamo chiedere ad Alessandro quali
sono i suoi imminenti progetti, come “vede” il calcio di oggi e un suo commento
sulla Lazio di Sarri.
R: "A maggio del 2024 uscirà una mia raccolta di
poesie dopo c’è una sezione dedicata al pianeta Lazio e in particolare a
Giorgio, il nostro Long John. Il calcio di ieri, in bianco e nero, mi piaceva
di più. Era un calcio sentimentale, di bandiere che adesso non esistono più. Lo
sport, nel Duemila, è merce, un prodotto industriale vero e proprio, non più
quel divertimento e quella fede così come li indicava Pier Paolo Pasolini. La
Lazio di Sarri mi piace e nonostante la partenza un po’ in sordina sono sicuro
che si riprenderà e farà un campionato di ottimo livello. Il mio giocatore
preferito è Luis Alberto, genio e sregolatezza, ma con capacità tecniche
assolutamente fuori dal comune. Vede con cento occhi e sa danzare sulla palla.
Chiudo con uno slogan. Nonostante tutto, Giorgio Chinaglia è il grido di
battaglia. Sì, lo è ancora e lo sarà per sempre. A questo punto non resta che
dire: avanti Lazio!"
Intervista a cura di Ugo Pericoli