Cari fratelli Laziali,

la parola tranquillità non si addice ad una tifoseria come la nostra. Però è certo che l’ultima giornata, ci ha restituito almeno parte di quel sorriso che era andato perdendosi nel corso del campionato. Siamo al mese decisivo. C’è chi andrà a Tirana e chi no: questa la narrazione di una finale europea da parte di una stampa, quella cittadina, che fino a 14 mesi fa pensava che “Conference League” fosse il nome della Serie A della Svizzera. È fondamentale arrivare “prima”.

Detto questo, torniamo indietro di una trentina d’anni, quando una Lazio gagliardamente calleriana andò a Torino per giocare con la Juve. Era domenica 21 ottobre 1990, la sesta giornata del campionato 1990-91

La ultraconservatrice Juventus ha scelto di affidare le sorti della squadra ad un signore dall’affabile aspetto che ha saputo risvegliare il Bologna F.C da un lungo letargo, venticinque anni di completo anonimato tra serie A e B. Si Chiama Luigi Maifredi, predica un calcio spettacolo, anzi, un calcio champagne. Palesando una originalità davvero scarsa, i media gli hanno affibbiato questo stereotipo, dopo aver appreso che Maifredi ha svolto l’attività di agente di vendita per la Veuve Clicquot Ponsardin, la nota azienda francese produttrice di champagne.  Si accomoda in panchina insieme a tutto lo staff sanitario e a Bonaiuti, Gigi Casiraghi, Galia, Bonetti e Daniele Fortunato. Manda in campo una Juve in clima di restaurazione: Tacconi, Luppi, Julio Cesar, Corini, De Marchi, De Agostini, Hassler, Marocchi, “Paoletto” Di Canio, divin codino Baggio e Totò Schillaci.

Sulla nostra panchina siede uno dei giocatori più rappresentativi di tutta la storia della Juventus: Dino Zoff. Super Dino è stato ingaggiato da Gian Marco Calleri, un grande colpo di mercato che ha invaghito e stregato opinionisti e tifosi. La Lazio di Zoff è una squadra (e una società) in cerca di continuità dopo il decennio horribilis degli anni ’80: Fiori, Bergodi, Sergio, Pin, Gregucci, Soldà, Madonna, Sclosa, Riedle, Domini e Sosa. In panchina vanno Orsi, Lampugnani, Marchegiani, Bertoni e Saurini. 

Si gioca al “Delle Alpi”, lo stadio con il nome di una pensione a due stelle. Arbitra il signor D'Elia di Salerno: abbronzato neanche fosse metà luglio, comanda l’avvio del gioco davanti ad oltre 40.000 spettatori.

Parte benino la Juve, da una punizione di Baggio ben parata da Fiori, nasce il legno colpito da Marocchi. Poi, con la complicità del (nuovamente) incerto Valerio Fiori, arriva la traversa di Haessler, un sinistro da posizione comunque difficilissima. Il primo tempo per la Juventus è tutto qui. Zoff, che ha giocato una vita con tutti i “grandi” del calcio, sa bene come di ferma uno come Roberto Baggio: lo si ingabbia con un marcamento misto uomo-zona.  Francobollato a dovere, Baggio non riesce a giocare come vorrebbe e Totò Schillaci, con i primi rigori dell’inverno torinese, sembra aver perso sia gli spiritati sguardi che le fameliche voglie. Quanto alla partita di Paolo Di Canio, è come la minima all’estero di Belgrado: non pervenuta. Proprio Di Canio reclama un rigore al 67' (intervento borderline di Sclosa in area, ma D'Elia non ravvisa gli estremi.

La Juventus si perde nelle proteste e da quel momento preciso la Lazio sale in cattedra. Perché la Juve si allunga, sfilacciandosi dalla regia inconcludente di Corini, e la Lazio diventa l’immagine riflessa di Dino Zoff: ordinata, diligente e geometrica, soprattutto nell’arcigno Sclosa e nel metronomo Pin. Domini sembra lui Baggio, mentre Gregucci, Sergio, Bergodi e Soldà danno l’impressione di costituire una grande difesa. Ruben Sosa sembra un coyote, prova ad azzannare il pallone sfuggendo prima a Luppi poi a Galia, mentre Riedle – purtroppo – non appare mai pienamente concreto. Comunque, il tedesco anticipa sempre De Marchi, o di piede o di testa. E la Juventus? La Juve dell’ultima mezz’ora deve tutto a Stefano Tacconi: tre nitide palle-gol fallite da Riedle e da Sosa, a tu per tu con Tacconi, danno la misura dello spreco di quel pomeriggio. I tifosi juventini vengono colti dai rimpianti e contestano tutti, dall’allenatore alla dirigenza. Uno striscione bianconero recitava “Ciao Dino, grazie di tutto”. Era la prima volta di Dino Zoff contro la sua ex squadra. Si chiudeva un ciclo mentre ne stava nasceva un altro: quello della Lazio degli anni Novanta, che sarebbe sfociato nella conquista dello strameritato scudetto del 2000. Dino Zoff, probabilmente, funse da “prima pietra” per un progetto che, all’inizio dell’estate di soli tre anni prima, poteva preventivare soltanto un pazzo.

Quali analogie con la sfida di lunedì sera? Più di una e, visto che siamo scaramantici, preferiamo non parlarne lasciandovi liberi di fare ogni tipo di scongiuro.

A noi andrebbe bene lo 0 a 0. È fondamentale “quel punto”, per poi far vedere carte più belle all’ultima mano del campionato. Prima di salutarvi, un saluto e un “in bocca al lupo” al grande Stefano Tacconi: auguri roccia! Forza Lazio!

Ugo Pericoli