Cari fratelli Laziali,

l’ennesima sosta per le Nazionali è coincisa con le dimissioni di Maurizio Sarri. Due settimane infinite, un tempo troppo lungo per noi che ci stiamo abituando a questo Calcio che brucia in fretta i suoi idoli e che tende a dimenticarli con la medesima velocità. E se nei primi giorni il chiacchiericcio era incentrato sulle cause e sulle modalità dell’addio, con l’annuncio di Igor Tudor alla guida tecnica, ci siamo tutti riscoperti commissari tecnici, esperti di tattiche e di moduli. In realtà, non sappiamo come giocherà la nuova Lazio, non lo sa nessuno e probabilmente, oggi non lo sa nemmeno Tudor.

Sabato sera ne sapremo qualcosa di più. Nel frattempo, ce ne torniamo al Calcio “vero”, a quel gioco prezioso che arricchiva la vita di tutti noi con una gioia gratuita e priva di veleni. Un Calcio dal volto umano, scritto su misura per adeguarsi alle nostre esigenze: l’inizio della Serie A, coincideva con la riapertura delle scuole. Il brusco passaggio dall’ozio estivo al grembiule, a quel terribile colletto plastificato che si attaccava alla pelle, era attenuato dal tuo edicolante: con un sorriso paterno, ti allungava un album di Figurine Panini, candido e vuoto, profumato di nuovo. Era un rito immancabile, quasi propiziatorio. Era un’iniziazione, non si poteva non amare il Calcio.

Avevo dodici anni quel 3 ottobre 1976. Ricordo che mi svegliai prestissimo, alle 7 ero già in piedi. La Messa, un po’ d’oratorio, alle tele Oggi cartoni animati. Alle 13 il pranzo in famiglia con pollo, patate fritte e pasterelle della Partenope. Alla fine del pallosissimo telegiornale, finalmente lo Sport: in collegamento dagli spogliatoi ancora deserti, appare Enzo Stinchelli per la partita più attesa della domenica, Lazio-Juventus. Lo ammirai e lo invidiai con tutte le mie forze: microfono alla mano, seguito dal cameraman, ci mostrò -afferrandoli - gli scarpini di Wilson. A quel punto mi alzai dalla sedia, filai dritto in camera, presi la sciarpa a rigoni biancazzurri cucita da mia madre a dritto/rovescio durante l’estate e uscii dal palazzo di via Ugo de Carolis sventolando la mia bandierina 30x30 con la scritta Lazio Meravigliosa. Finalmente, dopo un’estate infinita, era giunta l’ora.

Era la prima giornata del Campionato di Serie A 1976-77

La mia corsa a rompicollo lungo il K2 (viale Edmondo de Amicis) si rivelò abbastanza inutile: la partita sarebbe cominciata con 15 minuti di ritardo, io non lo sapevo. Assetato, mi accucciai sui gradini del parterre mordicchiando un Cornetto Algida pagato una fortuna.

Il nostro allenatore è nuovo e mi sta simpatico. Si chiama Luis Vinicio. Alcuni giocatori li conosco molto bene ma ci sono tanti volti nuovi e c’è perfino un “romanista”: Felice Pulici, Paolo Ammoniaci, Pietro Ghedin, Pino Wilson, Lionello Manfredonia, Ciccio Cordova, Renzo Rossi, Luciano Re Cecconi, Bruno Giordano, Vincenzo D'Amico e Roberto Badiani. In panchina ci sono i giovanissimi Claudio Garella e Andrea Agostinelli, poi Luigi Polentes, che sembra mio nonno, sì, mi sembra decisamente anziano.

Fino agli otto anni non avevo una fede calcistica. Tifavo, per convenienza, la squadra più forte del momento: Inter, Milan, inevitabilmente anche Juventus. Pertanto, mi vergognai un po’ mentre sfilavano sotto i miei occhi i giocatori che corrispondevano alle Figurine Panini che avevo ammirato di più: Zoff, Cuccureddu, Gentile, Furino, Morini, Scirea, Causio, Tardelli, Boninsegna, Benetti e Bettega. Ecco Giovanni Trapattoni, un quasi esordiente. Per via del suo eloquio sconclusionato (ma che ammiravo tantissimo) mi incuteva soggezione quasi quanto un personaggio di Tribuna Politica.  

Lo stadio è pieno, Bergamo fischia, partiti! Stiamo giocando benissimo: la Lazio è aggressiva e sospinta dal pubblico. D’Amico mi piace da morire e Bruno Giordano è già diventato il mio idolo. Poi però vedo Causio mal marcato da Cordova, il pallone che arriva a Gentile, il suo cross, morbido e scolastico - per Boninsegna. Vedo Bonimba che effettua una finta, Manfredonia c’è cascato, s’è fatto mette’ ‘n mezzo, palla a Bettega che da distanza ravvicinata insacca in rete di piatto destro. “E che cavolo, che gol cretino, lo avrei segnato perfino io”, dico a me stesso, mentre i tifosi “grandi” si accendono una sigaretta consolatrice.

Ci lanciamo in avanti: tre tentativi di Bruno Giordano. Un altro dei miei idoli, Luciano Re Cecconi, prova a superare Dino Zoff. Zoff è un’icona del Calcio, forse è il calciatore che ammiro di più in assoluto, ha la faccia da vecchio, ma è insuperabile. Cordova, Cecco, lo stesso Wilson, provano a lanciare palloni in avanti ma Scirea e Furino riescono sempre a chiudere in anticipo.

È già finito il primo tempo, pioviggina. Una signora seduta vicino a noi, dice al marito che ha sbagliato a vestirsi così, ché tira lo scirocco. Io non capisco, forse a dodici anni non senti né il caldo né il freddo, mi rode che stiamo perdendo e basta.       

Inizia il secondo tempo, giochiamo male. La Juventus si spinge in avanti, mi sa che vuole chiudere la partita, si rende molto pericolosa, indietro facciamo il possibile cercando di ripartire in contropiede.

Dopo poco, la Juve raddoppia, il gol era nell’aria. È il 54': siamo tutti sbilanciati in avanti, i compagni si sono affidati a D'Amico, ma Vincenzino, giunto sulla trequarti, per liberarsi di Boninsegna effettua un dribbling di troppo. Risultato? Boninsegna, che è molto più fisico di lui, gli sfila la palla di testa e s’invola verso Pulici, che nulla può. È un gol regalato ai bianconeri, che non avrebbero certo avuto bisogno del nostro contributo per vincere la partita.

Mi ero fatto un altro film. Magari ce ne fanno anche un altro, mi metto a pensare a cosa dirò in classe il giorno dopo, a come giustificherò la sconfitta, quando vedo i capelli biondi di Luciano Re Cecconi brillare in quel pomeriggio appiccicoso di caucciù.

Re Cecconi, defilato sulla sinistra, ha le spalle rivolte al campo. Parte dall’ala, si libera dall’inciampo di Bettega, poi incontro ravvicinato con Furino (immortalato nella nostra foto articolo), tunnel al capitano della Juventus, protezione del pallone dall’attacco di Gentile e tiro rabbioso, a superare Zoff, per uno dei gol più belli che abbia mai visto in vita mia. Cecco vola verso la Sud con le braccia allargate, sembra un angelo.

Lo stadio riprende a pompare come se si fosse già sul pari. Ci buttiamo in avanti, LAZIO-LAZIO, ma è una girandola sconclusionata. Mancano venti minuti, ci sarebbe stato tutto il tempo. Ma Cuccureddu ha tirato una fucilata che incoccia proprio sulle caviglie di Cecco, il pallone s’impenna e arriva a Bettega che è solo, al centro dell’area, quasi sul dischetto del rigore. Il suo è un tiro sporco ma calciato al volo, che diventa imprendibile per Pulici, che è preso in controtempo. È il Settantesimo minuto, la Juventus, ormai rassicurata sul risultato, tira i remi in barca.

All’ultimo minuto segna Giordano, abbiamo perso la partita ma non la faccia. Almeno, a scuola avrei potuto argomentare la nostra grande sfortuna.

Non sapevo, non potevamo saperlo, che quello cui avevamo assistito sarebbe stato l’ultimo volo di Cecco.

Luciano Re Cecconi s’infortunò nel corso del campionato, sarebbe dovuto rientrare a metà gennaio ma non rientrò mai più.

Era una Lazio che iniziava a perdere i suoi figli. Potremmo definire la Lazio del campionato 1976-77, come l’ultima delle Lazio Meravigliose, che chiuse il Campionato con un brillante quinto posto, il quarto miglior piazzamento dei nostri favolosi Anni Settanta.

Come lo scorso anno, anche questa nuova sfida con la Juventus arriva di Sabato Santo. Auguriamo ai nostri lettori una Pasqua serena e – come sempre – forza Lazio!

Ugo Pericoli